Libro : L'Industria dell'Olocausto di N. Finkelstein
( è un ebreo )
Di cosa parla Finkelstain, giovane
politologo ebreo di New York, figlio di deportati e allievo di Noam Chomsky?
Semplicemente osa sostenere una egemonia giudaica della memoria, rafforzata da
una senso acuto per l’interesse finanziario, il tutto sotto l’egida di quello
che viene chiamato "il dogma dell’Olocausto" (il termine "dogma", direttamente
mutuato dalla letteratura negazionista, sta ad indicare che una verità ufficiale
è stata stabilita una volta per tutte e che in suo nome viene impedito ogni
ulteriore approccio critico alla questione).
Questa egemonia sarebbe dunque esercitata dalle principali istituzioni
comunitarie internazionali che avrebbero ricavato il maggior profitto dalla
Schoah.
Certamente, nella postfazione, Brauman insiste sul contesto americano e
sottolinea che questa "economia dell’estorsione attuata da certe istituzioni
giudaiche…….resta prevalentemente un fenomeno d’oltre Atlantico"
Ma Finkelstein non dimostra alcuna esitazione quando deve superare il limite che
sta tra la critica alle pratiche del Congresso giudaico mondiale e dei gruppi di
pressione filo-israeliani degli Stati Uniti, e il gettare nel discredito
mondiale comunità le cui sofferenze non possono realisticamente essere stimate
da alcuna amministrazione.
Parlare di "affabulazione dei sopravvissuti", di un "fraudolento travisamento
della storia"; vedere il "più grande ladrocinio della storia dell’umanità", non
è privo di senso né di conseguenze.
Stesso discorso il qualificare dei "guazzabugli che ingombrano gli scaffali" i
libri che danno la parola a una memoria così a lungo e tanto dolorosamente
negata. In compenso, Finkelstein non esita ad affermare che "la letteratura
negazionista non è del tutto priva di interesse".
Guazzabugli da una parte, interesse dall’altra.
Certo, eliminare senza discussione una voce dissonante assimilandola ad un
gretto discorso antisemita, significa cedere alla confusione.
Ma una lettura attenta del libro di Finkelstein dimostra che l’argomentazione ha
in questo caso il compito di fiancheggiare il negazionismo, anche lui nato nella
sfera d’influenza dell’ultra sinistra, dove la denuncia del Grande Satana
americano e del capitalismo mondiale va a braccetto con un evidente
antisemitismo mascherato dalle critiche allo stato di Israele.
Questa falsa dialettica, che consiste nel richiedere l’eliminazione dei supposti
tabù di cui noi saremmo le vittime, trarrà in inganno, purtroppo, una parte dei
potenziali lettori....
....L’autore del libro, Norman Finkelstein, 47 anni, insegnante di Teoria
Politica a New York, ebreo e figlio di deportati, aveva già pubblicato diverse
opere, tra cui "Le tesi di Goldhagen e la verità storica", nelle quali
denunciava l’utilizzo ideologico e finanziario della Schoah da parte degli ebrei
americani. Avendo però ora letto il suo ultimo libro nell’edizione francese, mi
sono reso conto che il suo intento non si riduce questa volta ad un’offensiva
contro le cosiddette istanze "comunitarie" (del resto molto criticate anche da
numerosi ambienti ebrei americani): infatti, ad uno sguardo più attento a questo
attacco alla memoria contenuto nelle circa 150 pagine del libro, si capisce che
il significato più profondo è un altro....
....A più riprese l’autore si scaglia contro quella che definisce
"l’affabulazione dei sopravvissuti dell’Olocausto". Secondo lui la motivazione
di quelle donne e di quegli uomini che reclamano giustizia è soprattutto di
"ordine materiale", il loro racconto dei campi non ha altro scopo se non il
giustificare "il racket delle riparazioni dell’Olocausto", di cui le banche
svizzere sono state, sostiene Finkelstein, le prime vittime. Ecco allora "gruppi
formati da anziane donne ebree" o "da ebrei piangenti" che vanno a gemere
davanti alla commissione bancaria del Congresso americano; molti di questi
sopravvissuti non saranno degli impostori che "si sono costruiti un passato?".
Perché tale è, secondo Finkelstein, la funzione primaria del "dogma
dell’Olocausto". Se questa "costruzione ideologica" non ha che "un tenue legame"
con la realtà, essa tuttavia rappresenta la materia-base di una "industria"
planetaria: di volta in volta in effetti, banche svizzere e ditte tedesche sono
state costrette a piegarsi sotto i colpi della "macchina da guerra
dell’Olocausto". Da un lato questa "armata" può contare "su una stampa
infinitamente servile e credulona"; dall’altro essa può brandire la minaccia del
boicottaggio economico attraverso "la complicità del Congresso americano".
Allo stesso tempo questo insegnante che si colloca all’estrema sinistra difende
poi con le unghie e con i denti il mondo delle banche svizzere ("facile preda")
troppo frettolosamente condannato nella questione dei conti "sommersi" e delle
transazioni in oro con la Germania nazista.
Ne consegue che, secondo l’autore, le eventuali malversazioni finanziarie di
quei banchieri non sarebbero che piccolezze a confronto "dell’industria
dell’Olocausto, fondata su una fraudolenta mistificazione della storia", che
praticando lo "sciacallaggio delle tombe" diventa in modo evidente "il più
grande ladrocinio della storia dell’umanità".
Nonostante questo, secondo Finkelstein, è stato necessario attendere la fine
degli anni ’60 per assistere all’emergere di questa "industria". Perché, nel
periodo della guerra fredda, gli ebrei americani ostentavano "una grande
indifferenza nei confronti del destino di Israele". Fieri del loro "stato di
servizio anticomunista" essi erano totalmente allineati sulle posizioni di un
governo preoccupato delle sue buone relazioni sia con il mondo arabo sia con i
suoi alleati della Germania dell’Est.
Non è che dopo la guerra del 1967, quando Israele diviene "una testa di ponte
americana in Medio Oriente", che "le èlites ebree americane scoprono,
finalmente, il loro nuovo amico" e decidono di sospingere "la memoria
dell’Olocausto al centro della scena".
Da allora "l’industria dell’Olocausto" ha inizio e non cessa in seguito di
"aumentare le sue quote di produzione". Prontamente dotata di una "burocrazia
bel oliata" e di "un formidabile apparato operativo", questa immensa macchina
per estorcere denaro non doveva impiagare molto tempo, secondo l’autore, per
trovare potenti strumenti di propaganda: musei dell’Olocausto, "pellegrinaggi
verso i campi della morte" e altre "operazioni di grande spettacolarità"
orchestrate da una sequela di istituzioni ben conosciute. Così Finkelstein può
ironizzare su questo "affare di famiglia" che sarebbe il Centro
Simon-Wiesenthal, "celebre per le sue esposizioni del tipo Dachau-Disneyland"
Non manca a questo punto "all’industria dell’Olocausto" che un vasto corpus
teorico finalizzato a legittimarla. Da qui "il guazzabuglio che ingombra oggi i
ripiani delle librerie e delle biblioteche", insorge Finkelstein, il quale non
esita ad affermare che "la letteratura della soluzione finale" rigurgita di
"mistificazioni" e di "assurdità", mentre "la letteratura negazionista non è
priva di interesse".
Inoltre, secondo l’autore, l’Olocausto non serve solo a produrre denaro, ma
rappresenta anche "un alibi prezioso", "un grimaldello ideologico" che permette
di smontare ogni critica che ha come oggetto la politica israeliana nei
confronti dei Palestinesi. Ma, al di là della questione del Medio Oriente,
l’Olocausto serve comunque a mettere in secondo piano "la sofferenza degli
altri", per esempio quella dei bambini iracheni, riguardo ai quali Finkelstein
afferma che l’embargo economico ha avuto come conseguenza la morte di più di un
milione di loro, "ossia, come nel corso dell’Olocausto nazista". Allo stesso
modo sarebbe a causa delle "assurdità dell’Olocausto" che sarebbe impossibile
parlare del razzismo di cui sono oggetto gli Afro-Americani e, ancora, "la
discussione intorno al genocidio degli Armeni resta un tabù".
Si sarà pertanto compreso che il libro di N. Finkelstein non si concede alcuna
sfumatura. Proprio per questo, forse, nella postfazione dell’edizione francese,
l’estensore di questa, Romy Brauman, si sforza lui di sfumarne i contorni
collocandola nel contesto della realtà americana. "L’economia dell’estorsione
messa in atto da certe istituzioni ebraiche americane (….) resta un fenomeno
largamente d’oltre Atlantico"; "essa è stato più volte criticato senza reticenze
da personalità ebree in Francia". Allo stesso modo egli afferma che alcune
ipotesi di Finkelstein sono destituite di ogni fondamento (ad esempio la famosa
"cesura" del 1967) e che altre si rivelano semplicemente come "propaganda".
tratto da:http://www.pavonerisorse.to.it/storia900/default.htm
Ndr: capita a volte di incontrare ebrei che scrivono queste cose, e sono più di
quanti si possa
PENSARE! Ovviamente restano topi bianchi sia nel loro ambiente naturale,sia nel
mondo
dei beneficiati da tale industria dello sfruttamento dell'"oloca$h,sia ,a
maggior ragione,
nei ghetti della "cultura" di sinistra che, della bandiera dell'antifascismo, ha
fatto il
suo ,ormai unico motivo di esistere,dopo il crollo del mito del comunismo quale
liberatore
dal bisogno delle "masse".
Una cosa è certa: il giorno in cui il baraccone, di cui parla l'ebreo
Finkelstein, dovesse
IMPLODERE si porranno domande forti e immediate a chi questa "INDUSTRIA" ha
creata , alimentata
e "perseguitato" chi a ciò non ha mai creduto e accettato :è ragionevole pensare
che molta
GENTE EUROPEA rivoglia indietro il SUO !Con gli Interessi(OVVIAMENTE)!